Che cosa dice il Rapporto Draghi sulla competitività
Mario Draghi ha ricevuto l’anno scorso l’incarico da parte della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, di predisporre un rapporto su “Il futuro della competitività europea” [in inglese]. Il report parte dai dati sul ritardo europeo nella crescita economica e l’ampio divario nel PIL che si è aperto negli scorsi dieci anni tra UE e Stati Uniti. Il trend, sostiene Draghi, si può ribaltare facendo crescere la produttività e questa aumenterà solo gestendo tre grandi trasformazioni: digitalizzazione, decarbonizzazione e cambiamenti geopolitici. Nel primo caso, occorre colmare il divario di innovazione nei confronti di Usa e Cina: per Draghi, l’innovazione permetterà all’Europa di mantenere la leadership manifatturiera e di sviluppare nuove tecnologie d’avanguardia. In particolare, l’intelligenza artificiale offre all’UE un’occasione importante per correggere i suoi fallimenti in termini di innovazione e produttività (solo 4 delle prime 50 aziende tecnologiche al mondo sono europee).
L’Europa – prosegue il report – ha ancora l’opportunità di sfruttare a proprio vantaggio le future evoluzioni della tecnologia, a cominciare dall’AI generativa, dove le aziende europee possono ritagliarsi una posizione di leadership in alcuni segmenti, integrando verticalmente l’intelligenza artificiale nell’industria per far salire la produttività. Ma, per riuscire, l’Europa deve emergere dalla sua struttura industriale statica, con bassi investimenti e bassa innovazione, che la relegano nell’ambito delle tecnologie di mezzo, ovvero non veramente dirompenti, e le danno scarsa capacità di passare alla commercializzazione delle nuove idee. L’analisi sottolinea come i primi 3 investitori in ricerca e sviluppo in Europa siano aziende automobilistiche, mentre negli Usa ciò accadeva negli anni 2000, mentre oggi i primi 3 investitori in R&S in America sono aziende tecnologiche. L’Europa sembra rimasta indietro di venti anni.
Il rapporto afferma anche che in Europa non c’è un buon funzionamento dei cluster di innovazione, che integrano reti di università, startup, grandi aziende e venture capitalist, che dovrebbero alimentare la crescita economica. L’Europa, infatti, non ha nessun cluster di innovazione tra i primi 10 a livello globale, mentre gli Usa ne hanno 4 e la Cina 3. A ciò si aggiungono la frammentazione del mercato unico e gli ostacoli normativi e giurisdizionali, per cui, tra il 2008 e il 2021, quasi il 30% degli unicorni (startup cresciute fino ad essere valutate almeno un miliardo di euro) fondati in Europa hanno trasferito la loro sede all’estero, la maggior parte negli Stati Uniti. Nelle norme, l’UE tende troppo a un approccio precauzionale con norme ex ante, anziché ex post, un altro ostacolo, secondo Draghi, all’innovazione.